La realizzazione dell’Atto finale di Helsinki: Una riflessione dal punto di vista di Belgrado
Nel luglio del 1973, a conclusione della prima fase della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa a Helsinki, vi era la consapevolezza comune di aver compiuto un primo passo storico verso la fine della guerra fredda. L’Atto finale di Helsinki non aveva però ancora assunto una forma scritta. L’accordo, che è diventato la pietra angolare della sicurezza europea, ha preso forma nella seconda fase della Conferenza, non in Finlandia, ma a Ginevra, Svizzera, dal 18 settembre 1973 all’1 agosto 1975.
Era un nuovo esperimento nel quadro delle relazioni internazionali. Le norme procedurali prevedevano che ogni paese avesse pari voce in capitolo, e tutti avevano il potere di veto. Le proposte sul tavolo erano migliaia. Est e Ovest gareggiavano per far accettare le proprie posizioni, mentre gli Stati neutrali e non allineati agivano da mediatori, ma sostenevano anche le proprie cause.
All’epoca Vladimir Bilandzic era un giovane ricercatore di politica ed economia internazionale di Belgrado. Per buona parte del secondo anno dei negoziati di Ginevra era stato membro della delegazione jugoslava come esperto di sicurezza internazionale. Egli ricorda la dinamica dei negoziati e la particolare preoccupazione jugoslava di dare una “dimensione mondialista” all’accordo sulla sicurezza europea.
Come furono organizzate le riunioni di Ginevra?
Le riunioni si svolsero dapprima presso Villa Moynier nelle vicinanze del Palazzo delle Nazioni, poi nei locali dell’Organizzazione internazionale del lavoro e infine nel nuovo Centro congressi internazionale di Ginevra. Fu in realtà una combinazione di riunioni formali e informali. Le plenarie si tenevano una volta la settimana, ma in seguito, con il volgere al termine dei negoziati, erano diventate più frequenti perché vi era la necessità di giungere a compromessi sui punti più controversi del testo.
Si tenevano riunioni dei comitati per ciascuno dei tre panieri – sulla sicurezza e sui principi fondamentali che guidano le relazioni tra gli Stati (il cosiddetto Decalogo di Helsinki), su questioni economiche e ambientali e in campo umanitario. Si tennero anche gruppi di lavoro speciali, ad esempio sul Mediterraneo e sul non ricorso all’uso della forza. Molti negoziati si tennero in realtà nei corridoi. C’erano lunghe pause caffè che venivano effettivamente utilizzate per negoziati informali e bilaterali.
Molto spesso durante l’ultimo mese, nel giugno del 1975, i colloqui proseguivano fino a tarda ora. Ma prima di quell’estate vi sono stati anche periodi con un ritmo relativamente lento. Vi erano, naturalmente, altri eventi internazionali che incidevano sui dibattiti – la fine della guerra in Vietnam, ad esempio – ma i negoziati procedevano comunque, senza essere influenzati da tali sviluppi più ampi.
C’erano fondamentalmente tre gruppi di Stati – gli Stati occidentali, l’Unione Sovietica con i membri del Patto di Varsavia e gli Stati neutrali e non allineati. Quest’ultimo gruppo era composto da quattro Stati neutrali più la Jugoslavia, e più tardi da Malta e da Cipro. Anche l’Irlanda era neutrale ma non faceva parte di questo gruppo.
Qual è stato il ruolo del gruppo neutrale e non allineato?
All’inizio è stato per lo più un ruolo di mediazione, che puntava a trovare un compromesso tra i due blocchi. In seguito il gruppo ha però presentato anche i propri interessi e le proprie proposte, tra cui una riguardante le misure di rafforzamento della fiducia.
È stato un processo per concordare posizioni comuni. Era un gruppo eterogeneo. All’inizio, l’area d’interesse comune si limitava principalmente alla sicurezza militare e ad aspetti del genere, ma in seguito si espanse. Alcuni paesi, l’Austria, la Svizzera e la Svezia, ad esempio, assunsero un ruolo guida nel campo dei diritti umani. La Jugoslavia a quell’epoca non era un paese democratico con un sistema multipartitico e non poteva permettersi di seguire l’esempio degli altri. C’era tuttavia un terreno comune, riguardo ai diritti delle minoranze nazionali, per fare un esempio.
La Jugoslavia promuoveva quella che all’epoca era comunemente chiamata “la dimensione mondialista”. Insisteva che la sicurezza in Europa non poteva essere distinta dalla sicurezza nelle altre regioni, che l’Europa non doveva essere un’isola di civiltà, mentre il resto del mondo rimaneva sottosviluppato e teatro di conflitti. Sosteneva quindi che tale “dimensione mondialista”, o in altre parole un approccio globale, dovesse essere introdotta nel testo dell’Atto finale di Helsinki. Formulazioni in tale spirito sono state infatti incluse in alcune disposizioni. Ad esempio, nell’introduzione alla Dichiarazione sui Principi che regolano le relazioni fra gli Stati partecipanti, gli Stati partecipanti hanno riconosciuto la “necessità per ciascuno di essi di dare il proprio contributo al rafforzamento della pace e della sicurezza nel mondo”. Nel Principio IX (Cooperazione tra gli Stati), si afferma che essi “prenderanno in considerazione l’interesse di tutti nella riduzione dei divari nei livelli di sviluppo economico, e in particolare l’interesse dei paesi in via di sviluppo in ogni parte del mondo.” Un altro esempio è nella sezione sulle questioni relative al disarmo, in cui si afferma che gli Stati partecipanti sono convinti che misure efficaci in questo campo “abbiano per risultato il rafforzamento della pace e della sicurezza nel mondo.”
Dopo la caduta del muro di Berlino e i successivi sviluppi in Europa, la dissoluzione della Jugoslavia e l’allargamento dell’Unione europea, la situazione è ovviamente cambiata. Ma credo sia ancora interessante analizzare le dinamiche dei negoziati in quel momento storico.
Come funzionavano i negoziati nella pratica?
La regola generale era che, nel testo dell’Atto finale di Helsinki, “nulla è concordato finché tutto è concordato.” Questa è la frase che si utilizzava costantemente. In teoria, la mancata approvazione di un unico paragrafo comportava la mancata adozione dell’intero documento. Era questo il metodo utilizzato.
L’uso di parentesi era molto comune. Quando le delegazioni verificavano che non vi era alcun accordo su una certa parte del testo, per non interrompere i negoziati dicevano semplicemente,: “mettiamola tra parentesi e procediamo oltre, ci torneremo in un secondo momento”. L’uso delle parentesi assunse una perfezione quasi ideale: a un certo punto c’era più testo all’interno che al di fuori di esse. A volte la discussione verteva sull’opportunità di inserire virgole tra le frasi – è il caso del principio dell’inviolabilità delle frontiere e di come i confini possono essere modificati con mezzi pacifici. Verso la fine dei negoziati si presentò il problema della traduzione nelle diverse lingue, vale a dire dall’inglese, che era la lingua di redazione, in russo, tedesco, francese, italiano e spagnolo. Alcune delegazioni temevano che un impegno espresso chiaramente in lingua inglese non sarebbe stato altrettanto chiaro in altre lingue.
Fu una trattativa molto complessa. Certe parti del documento dipendevano da altre. Per conseguire il consenso su una frase o su un principio si doveva raggiungere un’intesa su un’altra frase o su un altro principio. Si ricorreva spesso a quelli che sono stati chiamati “accordi di pacchetto”, che comprendevano anche panieri diversi.
Il ricorso alla regola del consenso era rigoroso e ampiamente rispettato. Qualsiasi delegazione, anche la più piccola in rappresentanza del più piccolo paese, poteva ritardare o bloccare una decisione. Una circostanza che si è effettivamente avverata verso la conclusione dei negoziati, quando il testo globale dell’Atto finale di Helsinki era stato concordato e Malta volle insistere su una formulazione relativa al Mediterraneo e bloccò la conferenza per quasi due giorni, fino a quando non si trovò un compromesso. All’epoca la questione venne riportata sulle prime pagine di tutti i giornali.
Ci fu inoltre un uso creativo dell’orologio nella serata conclusiva, quando si stava oltrepassando il termine della mezzanotte per concordare il testo dell’Atto finale. L’orologio fu fermato nella sala conferenze e si finse di comune accordo che la sua finalizzazione fosse stata conseguita nei tempi concordati.
Oggi, due anni possono sembrare un periodo assai lungo per negoziare un documento, ma bisogna rendersi conto che, all’inizio, l’Atto finale di Helsinki era quasi una pagina vuota. I principi fondamentali erano già stati concordati a Helsinki, durante la riunione preparatoria, ma non il testo stesso. Due anni di negoziati sono, a mio avviso, un periodo non troppo lungo per concordare un testo così ampio come quello dell’Atto finale di Helsinki.
I negoziati di allora e di oggi in seno all’OSCE sono a suo avviso paragonabili?
La regola del consenso era l’elemento fondamentale allora come lo è oggi – in questo senso non è cambiato nulla. Oggi, nonostante tutte le difficoltà, l’Europa è ovviamente molto più unita. A quell’epoca c’era la forte sensazione di aprire nuovi orizzonti per le relazioni internazionali. Tutti gli Stati partecipanti erano intenzionati a produrre un documento che avrebbe rafforzato la sicurezza in Europa e nessuno voleva rischiare un fallimento. Ripensandoci, la conferenza era destinata ad avere successo. Ma non fu per nulla facile. All’epoca, i sistemi politici erano molto diversi, così come erano diversi i sistemi di valori.
C’era forse una tendenza a prendere le cose, non vorrei dire necessariamente più seriamente, ma all’epoca le parole contavano molto. Ogni frase veniva analizzata. Era un esercizio comune ma anche una sorta di duello tra le due parti per far prevalere i rispettivi interessi. Era anche una rivalità ideologica e in alcuni ambienti questo esercizio suscitava scetticismo. Occorreva dunque convincere le capitali, i concittadini, del valore di tutto questo processo.
Tutti gli elementi dell’OSCE di oggi sono stati inclusi in un modo o nell’altro nell’Atto finale di Helsinki. Molte disposizioni operative non sono più pertinenti ma i principi di base sono ancora validi e i valori fondamentali, come i diritti umani, l’uguaglianza sovrana degli Stati, conservano in gran parte la loro legittimazione per la soluzione pacifica delle controversie. Anche le misure di rafforzamento della fiducia e della sicurezza in campo militare, benché fossero modeste rispetto a quelle attuali, hanno rappresentato di fatto una svolta poiché per la prima volta i paesi si impegnavano ad annunciare manovre militari in anticipo al fine di evitare malintesi e ridurre i rischi.
Naturalmente, uno dei punti più importanti, senza il quale l’OSCE non si sarebbe evoluta nell’organizzazione internazionale che è oggi, è stata la decisione di continuare il processo. All’inizio della conferenza non era garantito che tutti gli Stati sarebbero stati disposti a continuare in tal senso. Alcuni erano del parere che l’Atto finale di Helsinki dovesse segnare la fine del processo. In realtà, si decise di tenere una riunione sui seguiti a Belgrado. Perché a Belgrado? La Jugoslavia era un membro del gruppo neutrale e non allineato e non aveva ancora ospitato un evento (come avevano fatto la Svizzera e la Finlandia). Inoltre, era molto attiva nel movimento dei paesi non allineati alle Nazioni Unite e all’epoca aveva un forte legame con la regione del Mediterraneo. I negoziati di Ginevra dell’Atto finale di Helsinki furono dunque un inizio, più che una fine, e ritengo che ciò sia estremamente importante.
Dopo la firma dell’Atto finale di Helsinki, Vladimir Bilandzic ha continuato a partecipare alle riunioni sui seguiti e ai negoziati CSCE sulle misure di rafforzamento della fiducia e della sicurezza (CSBM). Oggi è Consigliere speciale nazionale per le CSBM presso la Missione OSCE in Serbia.
Per saperne di più:
Per un resoconto dettagliato del processo della CSCE redatto da un partecipante dell’ex Jugoslavia, si rimanda al saggio Problems of Security and Co-operation in Europe di Ljubivoje Aćimović (Sijthoff & Noordhoff, 1981), pubblicato la prima volta in serbo-croato con il titolo Problemi bezbednosti i saradnje u Evropi.
Questo è il terzo di una serie di articoli sull’Atto finale di Helsinki pubblicati su Comunità di sicurezza in occasione del 40° anniversario di questo fondamentale documento dell’OSCE. Vedere anche: “Risvegliare lo spirito di Helsinki” di Lamberto Zannier (Numero 1, 2015) e “Secondo paniere: quale futuro?” di Kurt P. Tudyka (Numero 2, 2015).
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