Una nuova generazione di artisti afghani: Il Kabul Art Project
Il panorama artistico dell’Afghanistan è rinato dopo la caduta dei Talebani nel 2011. Oggi molti giovani artisti riflettono su quanto è accaduto in Afghanistan durante i passati decenni e sulle sfide che il paese affronta oggi. Sono tuttavia confrontati ancora da una diffusa diffidenza nei confronti dell’espressione artistica, soprattutto quando è esercitata dalle donne.
“L’esposizione pubblica di opere d’arte di tipo critico si limita essenzialmente agli enti stranieri come l’Institut Français o il Goethe Institut” afferma Christina Hallmann, illustratrice e disegnatrice grafica di Colonia, Germania. Due anni fa ha avviato il Kabul Art Project, un progetto artistico che mira a prestare sostegno a undici artisti di Kabul. Si tratta di una piattaforma Internet che consente agli artisti di entrare in contatto con i mezzi di informazione, i collezionisti d’arte, le gallerie e gli amanti dell’arte. Il gruppo organizza anche esposizioni, di cui la più recente a Penticton, Canada, nell’autunno del 2015. “È stata la più grande esposizione d’arte contemporanea afghana organizzata finora al di fuori del paese”, ha affermato Hallmann.
Nel frattempo sono 26 gli artisti che partecipano al Kabul Art Project. Tre di loro, un uomo e due donne, ci hanno esposto le loro passioni e le loro preoccupazioni.
Idea, ricerca e interviste di Natalia Gurova, tirocinante presso la Sezione comunicazioni e relazioni con i mezzi di informazione del Segretariato dell’OSCE.
Hamed Hassanzada
Nato a Kabul nel 1987
Ho vissuto i primi anni della mia vita in mezzo alla guerra civile, alle esplosioni e ai bombardamenti missilistici. Ogni giorno era segnato dal caos e dalle sommosse. Ho iniziato a dipingere all’età di sette o otto anni. Quando avevo dieci anni la mia famiglia è stata costretta a emigrare. Più tardi sono tornato a Kabul con la speranza che la società globale avesse portato la pace in Afghanistan. Purtroppo però l’orrore della guerra mi ha travolto in modo ancora più drammatico. La guerra si era fatta largo nella città e le strade e i viali si erano trasformati in campi di battaglia. Ciononostante ho sostenuto la giovane comunità di artisti con corsi d’arte, mostre e seminari. In diverse occasioni l’ho scampata per poco e la mia arte è divenuta più amara e cupa.
Ora non credo nell’arte astratta. Per me la forma è importante, è il mio punto di contatto con il mondo. Mi interessa l’umanità, il popolo dell’Afghanistan e sono loro il soggetto dei miei quadri. Credo che il popolo afghano sia intrappolato tra la tradizione e la modernità, stia lottando con se stesso. Si vuole liberare ma in questo momento non può farlo. Io cerco un modo per rappresentare questi conflitti nella mia arte. In un’opera sono raffigurate quattro persone dietro delle maschere, le maschere sono forse una tradizione e celano il modernismo, due personalità all’interno di una sola persona.
Per l’Afghanistan è importante essere una nazione, ma in questo momento non lo siamo. Abbiamo diversi gruppi, i tagiki, i pashtun, gli uzbeki, gli hazara, che non si accettano reciprocamente. Per l’arte l’etnicità non conta, sono le emozioni profonde che contano e l’arte può essere un solido ponte per il ricongiungimento delle persone. Ho molti amici di diversi gruppi etnici. Realizziamo opere d’arte insieme, discutiamo di vari argomenti, organizziamo circoli e gallerie. L’amicizia è più importante della politica.
La gente in Afghanistan è molto povera. Il paese è ricco di talenti e di risorse minerarie come il gas, il petrolio e le pietre preziose, ma il popolo non può trarne vantaggio, è perennemente soggetto agli abusi dei signori della guerra. La gente lavora così duramente che non sorprende non abbia tempo o denaro per l’arte. La musica è più importante: si invitano musicisti popolari per allietare i matrimoni e le feste. I quadri e le sculture invece spaventano. Nelle moschee i capi religiosi dicono che fare ritratti e sculture non è halal e sono in molti a seguire questi veti. Vi sono però anche alcune persone che si interessano e visitano le mostre e le gallerie.
In Afghanistan sta nascendo qualcosa di nuovo e io spero che presto assisteremo a un cambiamento. Persone come me, artisti, poeti, attori, registi cinematografici, lavorano duramente, senza il sostegno del governo o del popolo, per realizzare qualcosa in cui credono. Io insegno presso il centro d’arte contemporanea di Kabul. Ho studenti motivati, che vogliono apprendere la storia dell’arte, la pittura sperimentale, il disegno e la scultura. Per loro l’arte conta. Sono giovani, dobbiamo armarci di pazienza.
Malina Suliman
Nata a Kandahar nel 1990
La mia arte è per lo più orientata alla politica. Cerco di dire alla gente di risvegliarsi e lottare per i loro diritti. A Kandahar e a Kabul ho realizzato graffiti, pitture e sculture sui diritti umani, i diritti delle donne, la politica statale e la corruzione. Ora sto studiando nei Paesi Bassi e mi dedico molto alle performance. L’ultima in ordine di tempo, in un museo, riguardava gli accordi dell’Afghanistan con la Russia e il Regno Unito in merito alle frontiere del Paese, la Linea Durand, il modo in cui le frontiere sono state sfruttate per dividere il paese. Parte del mio lavoro è molto concettuale. “Cos’è l’identità, qual è il suo vero significato? Cosa pensa un paese di un altro?” sono questi i quesiti che pongo.
Essere artista oggi è una sfida, in particolare in Afghanistan. Per una donna questa sfida è doppia. Gli afghani pensano che una donna debba stare in casa. Persino per gli uomini è difficile essere accettati dalle proprie famiglie in quanto artisti.
Io sono una musulmana praticante ma cerco di capire come posso conciliare la mia arte con la religione. Le sculture e i ritratti non sono consentiti ma vi sono eccezioni: il governo utilizza le fotografie per i passaporti. Quando realizzo una scultura dedicata ai diritti umani, non la percepisco come un idolo. È un modo per spiegare alla gente una situazione che vorrebbero ignorare. A volte gli oggetti raggiungono il pubblico più rapidamente delle lunghe discussioni. Ovviamente se realizzo una scultura di una donna nuda mi sarà praticamente impossibile esporla, ma se la scultura si limita ad assomigliare a una donna allora si evita di entrare in contrasto diretto con la religione.
Vivendo nei Paesi Bassi, vedo l’Afghanistan da un’altra prospettiva. Mi piacerebbe tornarvi e creare uno scambio artistico tra i due paesi. Vorrei spronare le donne afghane a creare delle comunità di sostegno reciproco, per guardare a un radioso futuro non solo per me ma anche per l’Afghanistan.
Gli afghani devono essere consapevoli di ciò che sta succedendo in altri paesi, non solo politicamente ma anche nella vita quotidiana. Ho realizzato un progetto sui desideri della gente, mettendo a confronto i sogni degli afghani con quelli degli europei. Gli afghani hanno espresso desideri di libertà, pace e sicurezza. Gli europei hanno affermato di sognare altro, come ad esempio il poter vedere più spesso i propri figli per mangiare o trascorrere del tempo insieme. Questo in Afghanistan la gente lo fa tutti i giorni.
Shamsia Hassani
Nata a Teheran, Iran, con nazionalità afghana, 1988
Ho studiato arte classica all’Università di Kabul ma desideravo adottare un approccio più moderno e realizzare un’arte che fosse veicolo di un messaggio. Ho partecipato a un seminario sui graffiti tenuto da un artista britannico, Chu, e organizzato da Combat Communications, e ho veramente iniziato a pensarla in quel modo. Ora lavoro principalmente come graffitista e street artist. Continuo a insegnare all’università ma nella mia arte sono libera. Il mio lavoro mi porta a girare il mondo: ho appena completato un murale su un’immensa parete a Los Angeles.
La street art è per tutti e tutti possono goderne. Mi piace dipingere su muri distrutti che conservano i segni della guerra e della devastazione e diventano parte della mia opera. La gente sta iniziando a dimenticare la guerra ma io voglio ricordarla, dipingerla sui muri, prendere i brutti ricordi e realizzare una città colorata.
Il personaggio principale dei miei graffiti è una donna che compie le azioni più disparate, come il protagonista di un film. Lei viene per cambiare le cose in meglio. Voglio ricordare alla gente che le donne possono svolgere ruoli differenti e che possono essere parte della società.
La mia famiglia mi sostiene ma è costantemente preoccupata. Per una donna essere in strada è difficile. Per trenta minuti va bene, ma non posso realizzare arte di buona qualità in mezz’ora, ho bisogno di almeno tre o quattro ore. A volte i miei amici vengono con me, ma ovviamente non possono rimanere tutto il tempo, quindi lavoro in genere da sola. Non so esattamente cosa potrebbe capitarmi. Molte persone non apprezzano la mia arte, pensano che non sia consentita nell’Islam. Il mio intuito mi aiuta. Se avverto che c’è un pericolo di qualsiasi tipo vado via anche se la mia opera è incompleta.
Per me l’Afghanistan è come una persona morta durante la guerra e rinata subito dopo. Ora è come un neonato che ha bisogno di tempo per crescere. La guerra ha lasciato dietro di sé molti problemi. Gli artisti possono dare indirettamente un contributo. Essi possono cambiare la mentalità della gente e la gente può cambiare la società. È un processo lungo e difficile.
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